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Sunday, June 24, 2012


La leggera indisposizione del neosindaco (parte prima)

Era il primo sindaco donna della Capitale e lo era da meno di un’ora.
Nonostante tutto si era barricata in ufficio con un litro di caffè a guardare dalla finestra la folla che la acclamava.
Ad ascoltare quegli inni preconfezionati.
A chiedersi cosa avrebbe fatto dal giorno dopo.
Era il neosindaco e da quando poco più di dieci minuti fa lo era diventato si era barricato nel suo studio al Campidoglio. Non faceva entrare nessuno, né alcun suono sembrava provenire dall’interno. Dalla finestra poteva vedere e sentire la folla acclamarlo e riporre in lui le residue speranze di rinnovamento di questa città di duemila anni fa. Aveva paura, il neosindaco. Non aveva lo straccio di un programma, ma era riuscita a spuntarla lo stesso. Era riuscitA, sì, non ho sbagliato a scrivere. La capitale d’Italia per la prima volta aveva eletto un sindaco con una coppia di cromosomi x e nient’altro. Probabilmente un gran numero di individui si sarà lasciato conquistare dalla retorica del cambiamento e della strumentalizzazione del sesso del neosindaco. Avrà portato l’anziana madre a votarlo convincendola della bontà dell’operazione. Il neosindaco adesso vorrebbe avere al suo fianco questo elettore medio. Desidererebbe con tutto il cuore lasciarsi convincere anch’ella dalle ottuse certezze del signore, ma non era possibile. Non aveva lo straccio di un programma. Il bilancio comunale era non rosso, di più, era Dario Argento. Aveva ottenuto quello che aveva cercato, ma ora si trovava su un’isola.
In questo istante erano passati quindici minuti – il tempo non fa sconti, non è che puoi andare a corromperlo promettendo il posto all’ATAC per suo figlio oppure i biglietti per l’aesseroma nella tribuna d’onore piena di teppisti, non puoi farlo al tempo, il tempo è solo un rubinetto e se ti distrai e non nuoti rischi di affogare nelle occasioni perdute – e il neosindaco sedeva dunque nel suo studio a luci spente. Le urla dei suoi sostenitori a cercare di entrare attraverso i pesanti doppi infissi. E un po’ ci riuscivano se è vero come è vero che ogni volta che il motto NEOSINDACO FATTI VEDERE!   raggiungeva il picco di decibel – e questo accadeva all’incirca all’altezza delle sillabe NE e DE – i suoi occhi si staccavano dalla tazzina di caffè muovendosi per qualche secondo nella stanza. Era una specie di ipnosi da potere in cui era caduto vittima. Uno strano incantesimo che le consentiva di focalizzarsi su un unico pensiero: la sua assoluta sensazione di impotenza davanti alla potenza, adesso che era riuscita a raggiungere il Campidoglio. In ogni caso aveva stretto mani per settimane ed elargito sorrisi a sconosciuti per troppo tempo per non sfruttare queste occasioni.
Il Segretario del Partito aveva le chiavi, le chiavi di tutto. Di conseguenza, anche quelle della stanza del sindaco. Era entrato senza bussare e le aveva subito ordinato di scendere a raccogliere “l’ovazione che meritava”. Ma cosa aveva fatto per meritarla? Aveva parlato quattro volte in pubblico, ripetendo meccanicamente quei cinque-sei concetti base che aveva mandato giù a memoria ben presto. La sicurezza, le tasse, gli immigrati, i giovani, le promesse. Aveva semplicemente mantenuto un minimo di educazione e contegno attorno alla sua immagine – ma non nei suoi discorsi prestampati – e l’imbarazzante tracollo del candidato della sinistra, finito martedì scorso in mutande sul settimanale scandalistico, aveva fatto il resto. Chiunque avrebbe vinto, chiunque. Ma era toccato a lei perché quella considerata più estranea a quella classe politica. Quella meno problematica, pure. Ed ora il Segretario le intimava di scendere in piazza a raccogliere quell’ovazione gratuita e sinistra, direttamente proporzionale al futuro di dissesto che aspettava lei e Roma tutta.
Stava iniziando a girarle la testa. Quando lo aveva comunicato a quello che ormai era il suo padrone, il Segretario aveva prima mostrato i denti, poi era diventato improvvisamente dolce e premuroso. Le aveva detto di prendersi tutto il tempo che voleva, di riposare qui sul divano. Lui le avrebbe fatto portare delle aspirine. E magari un panino con gli asparagi e dei peperoni. Tra qualche ora sarebbe sicuramente stata meglio, via. Intanto lui avrebbe convocato i giornalisti tutti. Prima quelli di Demiaset, ovviamente. A loro avrebbe fatto fare anche qualche foto, magari. Avrebbe detto che il neosindaco era rimasto così colpito dalla vittoria elettorale che aveva avuto un leggero mancamento. La sua commozione per la realizzazione del sogno della sua vita era troppo forte. Un leggero eccesso di felicità l’aveva messo KO per qualche ora. Questo, sosteneva il Segretario del Partito, testimoniava di per sé il grande attaccamento alla causa del neosindaco. Il neosindaco amava Roma. L’avrebbe resa un posto migliore, non appena la pressione sanguigna sarebbe risalita. Non appena la pressione della gente sarebbe calata.
Dopo queste parole la folla – se possibile – era diventata ancora più ingombrante e rumorosa, e i fascisti nella fontana di Trevi avevano ormai le dita rugose come il loro cuore. Il buio scendeva su Roma.
E mentre scendeva il neosindaco sedeva sul divano accusando questo malessere da poco. Quando era bambina, a volte passava il termometro sul termosifone e poi si misurava la temperatura che puntualmente era scabrosa. Ma la madre non ci cascava mai e la mandava puntualmente a scuola. Una mattina però aveva un’interrogazione che proprio aveva paura di affrontare. Matematica. Sapeva che il trucco del termometro non avrebbe funzionato e allora si alzò dal letto, si arruffò ancor più i capelli e disse a sua madre che aveva un enorme mal di testa. Un macigno sulla fronte. Era la prima cosa che le era venuta in mente, una mossa disperata in cui non riponeva alcuna speranza. Ma non era la prima volta che una situazione senza speranza si tramutava in un assurdo exploit e, visto il recente esito delle elezioni comunali, non sarebbe stata nemmeno l’ultima. Ad ogni modo sua madre aveva sgranato gli stessi occhi cerulei del Segretario del Partito e le aveva regalato le stesse premure. La stessa accondiscendenza. E ce l’aveva fatta. Aveva passato una giornata meravigliosa a casa con il cane Lillone tutto per sé ed era finita lì. La madre l’aveva chiamata dal lavoro per sincerarsi delle sue condizioni. Lei l’aveva rassicurata mentre sgranocchiava le patatine. Tutti quei bei cartoni alla tv, quegli eroi che volano alti nei cieli e non hanno bisogno di nessuna maggioranza relativa e nessun accordo in Transatlantico, tutto così semplice e impossibile, e i cartoni del latte, e i cartoni del succo d’arancia e la carta delle brioche. Il mondo era bello e soprattutto era così semplice, così facile ed impossibile.
La vera grande differenza tra il presente e quel bel ricordo non era tanto quella che intercorreva tra l’interrogazione di Matematica e l’enorme buco nel bilancio della capitale. Non era tanto che, tra gli altri, centinaia di energumeni rasati a zero inneggiavano a lei dall’interno di una rassegnata fontana di Trevi. La differenza più dolorosa era che adesso era notte e Lillone non c’era più e con lui i cartoni alla tv e le telefonate della mamma per sapere se andava tutto bene. Difficilmente quella giornata meravigliosa avrebbe avuto un remake. Il giorno dopo il mal di schiena l’aveva svegliato ben oltre le nove del mattino. I giornali ancora enfatizzavano la sua vittoria a sorpresa, il suo saper superare le avversità ed il suo capire i bisogni della gente e tante altre frasi che non si capiscono, e giù tutti a preoccuparsi per la sua testa, e giù tutti a scorticarsi le mani per applaudire il nuovo capo di Roma. Si era alzata, con quel tailleur che non era proprio il miglior pigiama del mondo e la testa pulsava ancora a ritmo di quei maledetti slogan di ieri.
                       
   NEOSINDACO FATTI VEDERE! NEOSINDACO FATTI VEDERE! 

La tazzina di caffè che ieri tremava ad ogni vibrazione del terreno come quel bicchiere d’acqua di Jurassic Park e la paura, anche se aveva una natura diversa, in fondo era la stessa. La paura di qualcosa di ignoto e pericoloso che era arrivato. Atene ormai bruciava da un pezzo sotto i colpi della speculazione globale. I neonazisti l’avevano quasi conquistata, stavano per piazzare le mine antiuomo lungo i confini, occorreva rassegnarsi. La testa le pulsava, faceva il rumore che fanno gli amplificatori difettosi.

(marco)

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