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Friday, June 29, 2012


Economia e gestione della tecnologia  e dell' innovazione

Ero di fuori a studiare, in veranda, su quel tavolo di legno che non ho mai capito perchè era fatto a fasce, e non costruito con una tavola di legno intero, poggiata sulle quattro gambe, come tutti i tavoli che si rispettino, o almeno quelli che rispetto io.
Il problema di quel tavolo è che era poco adatto a mangiare, perchè anche se ci metti una tovaglia su, e ci poggi le cose, come le bottiglie, hanno un equilibrio precario poichè è molto probabile, anzi ancor di più quando c'è una tovaglia, che tu le poggi proprio dove c'è la fessura tra due tavole e quindi nel caso delle bottiglie, guai a lasciarne una aperta. Non si contano le bottiglie di Coca ci si sono rovesciate alle mie varie feste di compleanno. Il design molto spesso uccide la funzionalità, ma tanto a loro cosa gliene fotte, è cool.      Per studiare invece è fastidioso perchè se ci poggi la matita, soprattutto quelle che non sono della Fila, che quelle sono esagonali e spigolose e dunque non rotolano facilmente, devi stare bene attento a che una botta di vento non la faccia cadere giù per una delle solite fessure. Insomma è proprio un tavolo del cazzo, mette ansia.
  Comunque di studiare non se ne parlava, ero più distratto del solito. Ogni cosa mi rubava l'attenzione per restituirmela quando le pareva a lei. Ad un certo punto degli spari di fucile mi regalarono un'immagine che mi fece pensare. I pini che avevo di fronte erano pieni di uccelli che io non avevo visto proprio fino a quegli spari. Difatti, a quei suoni prepotenti, vidi elevarsi  in volo almeno un centinaio di uccelli, tutti quanti scappati verso chisà dove, e chisà poi se si sarebbero riincontrati Chisàdove. Dei suoni emessi in lontananza da un sofisticato attrezzo costruito per mezzo dell'igegneristica umana che sarà stato lungo massimo un metro, avevano condizionato, il momento, la quiete ed il ritrovo di un centinaio di esseri viventi che spaventati, appunto dal  solo rumore erano fuggiti nel giro di un secondo, anche i più temerari. Mi chiedo cosa ne sapessero tutti quegli uccelli del rumore che fa un fucile, dato che non credo che abbiano la tv, e quindi che abbiano mai visto un western. Semplice mi dissi, forse è un suono del tutto contro natura, è un suono meccanico, come ho già detto, prepotente, e dunque, li induce ad avere paura.
 D'altro canto tutto quanto abbiamo costruito, noi cari uomini, con la nostra arte della meccanica, dell'ingegneria,nell'ottica del progresso, ha il carattere della prepotenza, così il tavolo di cui ho parlato prima, così quel fucile. L'arma poi è nella sua paradossale essenza, costruita per distruggere; è l'emblema della prepotenza. Molti di quelli che consideriamo successi sono una dannata forzatura e rappresentano uno sconvolgimento delle leggi della natura, la civiltà stessa lo è.  Gli spari di fucile e la fuga degli uccelli erano emblematici, a questo punto.
   Ora non vorrei sembrarmi un S. Francesco di turno ma questo mi aiuta a capire il comportamento delle persone  anche nei confronti delle persone stesse. La prepotenza è insita nella figura dell'uomo, nel suo percorso, e nella civiltà, la schifosissima civiltà, a detta di tutti creata perchè prepotenza non vi possa essere .   Non credo ci sia da stupirsi se qualcuno cerca di sopraffarci. Se non lo fa  o è perchè non ne ha le armi o perchè non è un uomo. Cosa è allora? una specie di Angelo, lì dove la concezione di Angelo è del tutto svincolata da qualsiasi dogma cristiano. Un angelo allora è un uomo che non conosce prepotenza. Ho sempre pensato al cristianesimo come una grossa balla, però capace, a suo modo, di trasportare, come potrebbe fare una corrente filosofica, dei messaggi. Il cristianesimo è una corrente filosofica.

 - Chuck Norris ha scritto delle specie di tavole,dei comandamenti, una specie di codice d'onore, pieno zeppo di significato, e tutti lo conoscono per il karate o per le barzellette -

Certe volte anche io mi sento indifeso come quegli uccelli, al punto che l'arrivo dell'uomo rovina la mia quiete, la mia serenità e  mi fa venire voglia di scappare, lontano dalla civiltà. Certe volte anche io percepisco con forza la sua prepotenza. Certe volte, infatti, scappo.
   Ora però credo di aver "perso" abbastanza tempo,almeno 20 minuti.  Devo rimettermi prepotentemente a studiare questa roba, su questo cazzo di tavolo meccanico. Il prossimo capitolo mi ispira un sacco: "Dinamica industriale e relazioni tra imprese".

Giulio


Il discorso armonico di Re Sassofono

Che tutto questo diventi musica disse il primo Re senza spada, l' Imperatore di un Popolo che non aveva capito ancora dove andare. Che tutto questo non sia frastuono e guerra, che abbiate ben presente la parola Armonia in ogni vostro gesto, che sappiate dare il giusto tono all'azione, a ogni vostra singola azione per poter raggiungere il  soave a livello corale. Ci son da capire le basi di una buona armonia innanzi tutto, anche se ho fiducia nel fatto che siete degli ottimi improvvisatori, che avete un ottimo orecchio, abbiate l'umiltà che porta all'autocritica costante, non quella oppressiva, quella costruttiva.
Il vostro orecchio vi permetterà di rendere il suono piacevole agli altri e voi stessi e nel contempo di capire quando state sbagliando nota, quando c'è bisogno di rifare, quando c'è bisogno di esercitarsi di più, quando c'è bisogno di maggiore attenzione. L'importante, la chiave di lettura, miei cari, è l'Armonia. Le voci fuori dal coro prima o poi verranno riconosciute e purtroppo non potranno più farne parte; i silenziosi, coloro che non cantano o lo fanno con voce troppo bassa, per paura, essi stessi se ne escluderanno perchè non troveranno più un senso nel cantare in un coro. Coloro che vogliono spiccare e con la loro voce coprire anche solo quella di chi gli sta a fianco saranno, ahimè, prontamente puniti dalle leggi del suono, poichè nessuna voce, nessuna può essere troppo forte a scapito di un'altra nel mio Regno. So che non è facile cantare in un coro, so che è molto più difficile che cantare da soli, che abbisogna di attenzione ad una molteplicità di fattori in più, ma sono fiducioso in voi;  io sarò il vostro direttore: via darò il tempo, vi avvertirò quando state stonando, quando state cantando troppo forte e, cosa forse più impegnativa di tutte, darò voce a chi non l'ha.

Giulio

Tuesday, June 26, 2012


Una Storia Vera

Ricordo che ero solo un ragazzo
occhiali tondi ricci lunghi testa grossa
e pure il diastema
e le margherite ancora solo fiori ai miei occhi

ma Lello già esisteva
passeggiava onesto per la città
una rete a stringere il pallone
ed un paio di scarpe adatte ai prati verdi

Lello era un attore e pure bello
uno di cui innamorarsi in agosto
ma aveva perso l’equilibrio
e nessuno a dargli una mano per rialzarsi

Seguitava allora passeggiando
con la rete e la sua palla
cercando solo buoni compagni di calcio
in questo infame desolante viaggio

trovando solo sputi e derisione
in questo infame desolante circo
di uomini raffreddati dalla routine
a ridere della sua bellezza

E chi dimentica come questa gente lo trattava
Ogni adulto diventava un professore
alle prese con un ragazzo da quattro soldi
che non diventerà mai amministratore delegato della fiat

poveri, stupidi uomini biodegradabili
schiavi agonizzanti lucidando piante e lavando macchine
a brucare il terreno a cambiare il filtro dell’aspirapolvere
e ignorare uno come Lello

Non parliamo dei bambini poi
Crudeli come solo loro sann’essere
peggiori degli adulti
nel sentimento escludente

per quell’uomo dallo sguardo dolce
come l’amore che un tempo provò
ora evaporato per sempre
come la speranza che un tempo riposi

Nonostante la mia complicità
ricordo che non mi sembrava giusto coprirlo di scherno
abortire un uomo inerme
come solo pazzi e lumache sanno essere

ma comunque conta solo ciò che si fa
e non feci nulla.
ancora non mi era consentito
seguire la verità di Lello

Ora che sono diventato uomo
e sento di poterlo aiutare
Lello è morto per sempre.

Ci sono uomini e uomini,
momenti e momenti,
ritmi e ritmi.

(marco)

Sunday, June 24, 2012


La leggera indisposizione del neosindaco (parte prima)

Era il primo sindaco donna della Capitale e lo era da meno di un’ora.
Nonostante tutto si era barricata in ufficio con un litro di caffè a guardare dalla finestra la folla che la acclamava.
Ad ascoltare quegli inni preconfezionati.
A chiedersi cosa avrebbe fatto dal giorno dopo.
Era il neosindaco e da quando poco più di dieci minuti fa lo era diventato si era barricato nel suo studio al Campidoglio. Non faceva entrare nessuno, né alcun suono sembrava provenire dall’interno. Dalla finestra poteva vedere e sentire la folla acclamarlo e riporre in lui le residue speranze di rinnovamento di questa città di duemila anni fa. Aveva paura, il neosindaco. Non aveva lo straccio di un programma, ma era riuscita a spuntarla lo stesso. Era riuscitA, sì, non ho sbagliato a scrivere. La capitale d’Italia per la prima volta aveva eletto un sindaco con una coppia di cromosomi x e nient’altro. Probabilmente un gran numero di individui si sarà lasciato conquistare dalla retorica del cambiamento e della strumentalizzazione del sesso del neosindaco. Avrà portato l’anziana madre a votarlo convincendola della bontà dell’operazione. Il neosindaco adesso vorrebbe avere al suo fianco questo elettore medio. Desidererebbe con tutto il cuore lasciarsi convincere anch’ella dalle ottuse certezze del signore, ma non era possibile. Non aveva lo straccio di un programma. Il bilancio comunale era non rosso, di più, era Dario Argento. Aveva ottenuto quello che aveva cercato, ma ora si trovava su un’isola.
In questo istante erano passati quindici minuti – il tempo non fa sconti, non è che puoi andare a corromperlo promettendo il posto all’ATAC per suo figlio oppure i biglietti per l’aesseroma nella tribuna d’onore piena di teppisti, non puoi farlo al tempo, il tempo è solo un rubinetto e se ti distrai e non nuoti rischi di affogare nelle occasioni perdute – e il neosindaco sedeva dunque nel suo studio a luci spente. Le urla dei suoi sostenitori a cercare di entrare attraverso i pesanti doppi infissi. E un po’ ci riuscivano se è vero come è vero che ogni volta che il motto NEOSINDACO FATTI VEDERE!   raggiungeva il picco di decibel – e questo accadeva all’incirca all’altezza delle sillabe NE e DE – i suoi occhi si staccavano dalla tazzina di caffè muovendosi per qualche secondo nella stanza. Era una specie di ipnosi da potere in cui era caduto vittima. Uno strano incantesimo che le consentiva di focalizzarsi su un unico pensiero: la sua assoluta sensazione di impotenza davanti alla potenza, adesso che era riuscita a raggiungere il Campidoglio. In ogni caso aveva stretto mani per settimane ed elargito sorrisi a sconosciuti per troppo tempo per non sfruttare queste occasioni.
Il Segretario del Partito aveva le chiavi, le chiavi di tutto. Di conseguenza, anche quelle della stanza del sindaco. Era entrato senza bussare e le aveva subito ordinato di scendere a raccogliere “l’ovazione che meritava”. Ma cosa aveva fatto per meritarla? Aveva parlato quattro volte in pubblico, ripetendo meccanicamente quei cinque-sei concetti base che aveva mandato giù a memoria ben presto. La sicurezza, le tasse, gli immigrati, i giovani, le promesse. Aveva semplicemente mantenuto un minimo di educazione e contegno attorno alla sua immagine – ma non nei suoi discorsi prestampati – e l’imbarazzante tracollo del candidato della sinistra, finito martedì scorso in mutande sul settimanale scandalistico, aveva fatto il resto. Chiunque avrebbe vinto, chiunque. Ma era toccato a lei perché quella considerata più estranea a quella classe politica. Quella meno problematica, pure. Ed ora il Segretario le intimava di scendere in piazza a raccogliere quell’ovazione gratuita e sinistra, direttamente proporzionale al futuro di dissesto che aspettava lei e Roma tutta.
Stava iniziando a girarle la testa. Quando lo aveva comunicato a quello che ormai era il suo padrone, il Segretario aveva prima mostrato i denti, poi era diventato improvvisamente dolce e premuroso. Le aveva detto di prendersi tutto il tempo che voleva, di riposare qui sul divano. Lui le avrebbe fatto portare delle aspirine. E magari un panino con gli asparagi e dei peperoni. Tra qualche ora sarebbe sicuramente stata meglio, via. Intanto lui avrebbe convocato i giornalisti tutti. Prima quelli di Demiaset, ovviamente. A loro avrebbe fatto fare anche qualche foto, magari. Avrebbe detto che il neosindaco era rimasto così colpito dalla vittoria elettorale che aveva avuto un leggero mancamento. La sua commozione per la realizzazione del sogno della sua vita era troppo forte. Un leggero eccesso di felicità l’aveva messo KO per qualche ora. Questo, sosteneva il Segretario del Partito, testimoniava di per sé il grande attaccamento alla causa del neosindaco. Il neosindaco amava Roma. L’avrebbe resa un posto migliore, non appena la pressione sanguigna sarebbe risalita. Non appena la pressione della gente sarebbe calata.
Dopo queste parole la folla – se possibile – era diventata ancora più ingombrante e rumorosa, e i fascisti nella fontana di Trevi avevano ormai le dita rugose come il loro cuore. Il buio scendeva su Roma.
E mentre scendeva il neosindaco sedeva sul divano accusando questo malessere da poco. Quando era bambina, a volte passava il termometro sul termosifone e poi si misurava la temperatura che puntualmente era scabrosa. Ma la madre non ci cascava mai e la mandava puntualmente a scuola. Una mattina però aveva un’interrogazione che proprio aveva paura di affrontare. Matematica. Sapeva che il trucco del termometro non avrebbe funzionato e allora si alzò dal letto, si arruffò ancor più i capelli e disse a sua madre che aveva un enorme mal di testa. Un macigno sulla fronte. Era la prima cosa che le era venuta in mente, una mossa disperata in cui non riponeva alcuna speranza. Ma non era la prima volta che una situazione senza speranza si tramutava in un assurdo exploit e, visto il recente esito delle elezioni comunali, non sarebbe stata nemmeno l’ultima. Ad ogni modo sua madre aveva sgranato gli stessi occhi cerulei del Segretario del Partito e le aveva regalato le stesse premure. La stessa accondiscendenza. E ce l’aveva fatta. Aveva passato una giornata meravigliosa a casa con il cane Lillone tutto per sé ed era finita lì. La madre l’aveva chiamata dal lavoro per sincerarsi delle sue condizioni. Lei l’aveva rassicurata mentre sgranocchiava le patatine. Tutti quei bei cartoni alla tv, quegli eroi che volano alti nei cieli e non hanno bisogno di nessuna maggioranza relativa e nessun accordo in Transatlantico, tutto così semplice e impossibile, e i cartoni del latte, e i cartoni del succo d’arancia e la carta delle brioche. Il mondo era bello e soprattutto era così semplice, così facile ed impossibile.
La vera grande differenza tra il presente e quel bel ricordo non era tanto quella che intercorreva tra l’interrogazione di Matematica e l’enorme buco nel bilancio della capitale. Non era tanto che, tra gli altri, centinaia di energumeni rasati a zero inneggiavano a lei dall’interno di una rassegnata fontana di Trevi. La differenza più dolorosa era che adesso era notte e Lillone non c’era più e con lui i cartoni alla tv e le telefonate della mamma per sapere se andava tutto bene. Difficilmente quella giornata meravigliosa avrebbe avuto un remake. Il giorno dopo il mal di schiena l’aveva svegliato ben oltre le nove del mattino. I giornali ancora enfatizzavano la sua vittoria a sorpresa, il suo saper superare le avversità ed il suo capire i bisogni della gente e tante altre frasi che non si capiscono, e giù tutti a preoccuparsi per la sua testa, e giù tutti a scorticarsi le mani per applaudire il nuovo capo di Roma. Si era alzata, con quel tailleur che non era proprio il miglior pigiama del mondo e la testa pulsava ancora a ritmo di quei maledetti slogan di ieri.
                       
   NEOSINDACO FATTI VEDERE! NEOSINDACO FATTI VEDERE! 

La tazzina di caffè che ieri tremava ad ogni vibrazione del terreno come quel bicchiere d’acqua di Jurassic Park e la paura, anche se aveva una natura diversa, in fondo era la stessa. La paura di qualcosa di ignoto e pericoloso che era arrivato. Atene ormai bruciava da un pezzo sotto i colpi della speculazione globale. I neonazisti l’avevano quasi conquistata, stavano per piazzare le mine antiuomo lungo i confini, occorreva rassegnarsi. La testa le pulsava, faceva il rumore che fanno gli amplificatori difettosi.

(marco)

Saturday, June 23, 2012


Lunatico Narciso

Te lo ricordi quel cuore di notte
in cui Narciso ti ha presa per mano e stringendola forte
ti ha accompagnato di fronte allo specchio?
Quell'attimo in cui appena prima di chiedergli perchè
stavolta fosse così impaziente
hai visto qualcosa di diverso da sempre,
quasi come se non fossi tu?
Eri cambiata nel tempo di un fulmine,
oppure gli specchi si erano rovesciati;
così come lo specchio anche tu iniziavi
a riflettere in un altro modo.
Mi ha detto il tuo vicino che ti ha vista trafficare
nel giardino con le tue scale di valori,
le hai spostate tutte sola col sudore della fronte.
Ho visto una foto di gruppo in cui tu non apparivi
benchè ci fosse anche la tua firma sul retro
e ti ho scoperta a dare una moneta al monco
di via Zirte, a cui prima regalavi inconsapevoli
 ma non curanti facce disgustate.
L'inspiegabile è che in quelle notti di mutevoli riflessi
ripensavi a Marco che ti amava molto,
come uno specchio che non cambia mai.
Ma capisci che i periodi di luce quando muoiono
 divengono ricordi oscuri
come quell'angolo di cielo
 in cui prima viveva una grande una stella?
Ora si che lo capisci.
Ma tanto, tu non abbisogni di nessuno,
solo dei tuoi specchi, o forse oltre, solo di Narciso,
sperando che li tenga sempre nel tuo verso giusto.

Giulio

Monday, June 18, 2012


Tre poesie per un periodo


ecco la mia disperazione
la disperazione di aver paura di parlare della propria disperazione
per non turbare la mamma
o non sembrare sembrare sembrare ho dimenticato cosa
ma ora che gli argini si sono rotti
sciolgo le braccia cadono i guinzagli

ecco la mia disperazione
posso consegnarla ai semafori che lampeggiano
e ai cani rotti del canile
capiscimi nel tuo abbraccio di acqua e terra
non dimenticarti che voglio dimenticare
persino te se necessario

ecco la mia disperazione
andare in corto per le giornate troppo lunghe
meglio dimenticarsi di non dimenticare
tutto andrà per il meglio ci hanno detto i catechisti
ho paura del buio
da quando mi ricordo le cose

                                          ------------


Diciannove agosto e niente si muove
Nella mia camera come nel mio continente
Il vento non soffia, ma trascina polvere
Sui miei capelli sopravvissuti al ferragosto
La Borsa perde un altro sette per cento
Andremo tutti a piangere in biblioteca


                                         ------------

Perché sono giorni così
E gli estranei son tantissimi
Con alcuni ci sono cresciuto
Di altri conosco indirizzo genitori codice di previdenza sociale
insospettabili fattori arano i campi con le bestemmie
e gli emarginati della mia città sono quasi tutti morti
e – ancora peggio – i superstiti hanno perso il coraggio dei bei tempi

certo ne accadono di cose stupefacenti

Perché sono veramente
giorni così
e la gente in metro aumenta sempre di più
ogni volta ci sbatto contro e mi sbuccio i gomiti e le ginocchia e lo accetto come una tassa
E ieri sera il comune regalava cibo alla gente in piazza
E voi a capodanno già emigrerete nelle vostre seconde case
Certo ne accadono di cose sorprendenti,

mi sento dire mentre dormo


(marco)


Wednesday, June 13, 2012


La Città

La Città, di cui, non ho mai capito il perchè, non esistevano cartine (il che sarebbe stato opportuno visto le continue imprecisioni dei cartelli e delle indicazioni)  si snodava più o meno in questo modo: una piazza centrale, sempre gremita di gente, "Piazza dell'Indecisione", il posto dove tutti si incontravano e parlavano, molto spesso delle strade che avrebbero voluto prendere, molto spesso con una birra in mano, presa in un baretto piccolo piccolo, dove costava veramente poco; era per questo che era facile soffermarsi per molto tempo e continuare a bere e a chiacchierare fino a tardi, sembrava la tipica piazza di un paese di mare.
da qui, partivano un certo numero di vie, alcune principali:

  "Via della Presunzione", dove la gente non ascoltava mai la gente e riusciva a sentire solo l'eco della sua voce, come se fosse la risposta alle sue domande; questa portava dritta al "Quartiere dell'Ignoranza", era la via più facile da prendere e più veloce;

  "Via dell'Umiltà", portava nel "Rione della Saggezza", ma bisognava fare un mucchio di casini per percorrerla, ardua e tortuosa, bisognava avere una specie di carro armato per arrivare a destinazione;

   "Via del Sogno", portava nel "Quartiere dei Miserabili", pieno di artisti di strada, venditori di coltelli senza manico, ragazzi squattrinati con le tasche piene zeppe d'erba e ragazze con vestiti poco impegnativi e dannatamente belli, addobbate con collane e braccialetti di plastica dalla testa ai piedi di quelli che con dieci euro ne compri una quindicina...lì la musica non mancava mai. Sembrava la strada più bella ma nessuno di quelli che conosco mi ha detto di averla percorsa tutta; si dice che ci sia chi lo ha fatto, ma di persona non ne ho incontrato nessuno;

  "Via del Successo", era quella che generalmente percorrevano le macchine sportive e quelli con le cose costose poggiate sulla loro persona/lità per appesantirla, portava diritti al "Quartiere dell'Ego"...l'isolato prima di "Rione della Solitudine";

   "Via dell'Amore", non so perchè ma avevano deciso di chiamare così la parallela di via del successo, ma non c'era nessuna traversa che le collegasse e in quanto parallela, non confluivano mai;

    "Via della Religione", era quella che, come via della presunzione era molto facile da prendere, non si pagava lo straccio di un pedaggio, non c'era mai la ztl...infatti molti decidevano di prendere quella quando non sapevano quale prendere...un sacco di incidenti su quella strada, e si dice che porti a casa di dio;

   "Via della Pazzia", una strada lunga e dritta che non si è mai capito dove portasse perchè i pochi che l'hanno presa, in città non si sono mai più fatti vedere e di indicazioni manco a parlarne;

   "Via dell'Immagine", la via più piena di vetrine che abbia mai visto; mi è capitato di percorrerla a volte, giusto per curiosità , ma tutte quelle luci e quei manichini mi mettevano la nausea e tra l'altro, è una strada che più vai avanti, più mi è sembrato che si restringa, sempre più difficile da percorrere, ma se vai in fondo puoi farti una bella passeggiata per il "Quartiere della Nostalgia".

  Ripeto, la piazza era gremita di gente, sempre; molte di queste persone rimanevano semplicemente a guardare quale strada prendevano gli altri, discutendone, ed era una buona occasione per stare sempre in compagnia,

altre, pur non avendo preso una strada, in piazza non le si vedeva mai.

Giulio

Friday, June 8, 2012


E viceversa

Ricordo che vivevo a Ferrara quell’anno lì.
Era novembre quando trovai un giornale sulla mia bicicletta, lo presi e lo buttai nel cestino.
Pochi minuti dopo ero all’Università.
Gli studenti sembravano molto determinati a conoscersi tra di loro.
Parlavano esclusivamente dei composti del carbonio.
Quando il professore entrava mi ricordo chiedeva sempre a qualcuno di dare un occhio dalla finestra dell’aula alla macchina che aveva parcheggiato nel posto per gli handicappati.
Al termine delle lezioni ricordo di esser stato infastidito dal vedere ancora quel giornale sulla mia bicicletta. Strappandolo lo buttai ancora nel cestino.
Il Papa sarebbe morto a breve ma ancora non lo sapevo.
Mentre pedalavo pensavo alla nebbia e ai ferraresi che la prima somiglia così tanto ai secondi e viceversa.
E forse anche pensavo che mi ci sarei dovuto abituare
o forse no
magari era meglio emigrare un’altra volta.

(marco)

Thursday, June 7, 2012

Il Frutto dell' Amore



II sole era alto nel cielo come tutte le volte in cui ero con zio Joh', anche quelle in cui non si vedeva per colpa delle nuvole. Sempre alto nel cielo. Io lo seguivo passo per passo mentre raccoglieva quella nuova specialità di pomodori che zia Marie lo aveva quasi obbligato a piantare perchè secondo lei erano più grandi e nello stesso tempo più succosi, ed era quella strana relazione che rendeva scettico un esperto contadino come mio zio.
   Come al solito stargli dietro per tutto  quel campo, che pareva non aver confini per le mie piccole vedute, era cosa a dir poco faticosa, soprattutto visto che eravamo nel bel mezzo del luglio più afoso che io ricordi da qui a quando i luglio nacquero. Mentre Joh' si accingeva a raccogliere i frutti dell'amore (così li avevo soprannominati visto che se faceva tutta quella faticaccia, senza convinzione, era solo per amore di mia zia) mi venne in mente quel discorso che avevo sentito nel saloon del paese  quando, tre giorni prima, ero andato con  zia Marie a consegnare le quindici dozzine di uova settimanali.
   Mi aveva colpito un discorso fatto da due forestieri, in particolare l'affermazione fatta da quello che sembrava essere il più anziano dei due, anzi lo era senza dubbio; "quello che è successo ieri dovrebbe averti insegnato una lezione, questa vita è una continua lotta e se davvero vuoi affermarti ed ottenere qualcosa devi essere lesto con il ferro e senza scrupoli, non c'è spazio per la pietà, è una terra per pistoleri e se non uccidi, vieni ucciso"; l'altra cosa che non mi lasciò di certo indifferente era la foga e la rabbia con quel tizio  pronunciava quelle parole, come se anche chi lo stesse ascoltando in quel momento fosse un suo nemico, qualcuno per cui non avere pietà.

   Ripensandoci, in quel pomeriggio di raccolta, mi venne spontaneo di chiedere a mio zio: "Joh', ma è vero che per ottenere quel che si desidera e per non vedere  mai calpestati sè stessi, bisogna essere cattivi, spietati, e senza scrupoli? Non si può conquistare una terra rispettando gli indigeni? non si può guadagnar qualcosa onestamente e senza far male a nessuno? non si può costruire senza distruggere?"
   Joh' si girò verso di me, che nel frattempo ero seduto con le mani sporche  della terra scura dei campi del Nord Dakota; la prospettiva da cui lo osservavo faceva si che la sua figura avesse preso esattamente il posto del sole. Disse: "vedi Jackie, la vita molto spesso ti pone di fronte a delle sfide per la conquista di qualcosa, probabilmente per la conquista di ogni cosa, molto spesso delle vere e proprie lotte; la cosa fondamentale è che tu tieni sempre ben presente  che stai combattendo per qualcuno, non contro qualcuno, che tu ricordi che  stai lottando per qualcosa, non contro qualcosa. Se perderai di vista le cose per cui lotti, nella foschia che molte volte la rabbia porta nella mente, se non riuscirai più a vedere le cose che ami, la "guerra" diverrà il fine e non più lo strumento per la salvaguardia di queste. A questo mondo, si può lottare per odio o per amore. Quando non si ha più nulla da amare o meglio, forse, quando non si riesce ad amare più nulla o si muore sul campo di battaglia o si va avanti spinti dall'odio, e spesso non si sa bene verso chi o verso cosa; è questo tipo di sentimento che  fa perdere il controllo, che cambia le persone e le rende senza scrupoli, cattive e sfiduciate nei confronti di tutti. Quindi, il mio consiglio è di non smettere mai di amare Jackie."

    Non so perchè ma zio Joh' ne sapeva più di tutti, più di chiunque altro io abbia mai conosciuto in vita mia,e  di gente ne ho conosciuta;aveva sempre una risposta alle mie domande; non capivo e forse non capirò mai a pieno, quanto fossi fortunato ad essere proprio io lì, in quelle bollenti giornate d'estate, il suo compagno di raccolta.

Giulio

Wednesday, June 6, 2012


Ti aspetto

Tu e le tue insicurezze. Come se avessi solo questi due ingredienti da mixare in tempi di guerra e tutto il resto è un lusso ed in pratica è così, dunque quel come ad inizio frase appare superfluo, superfluo come superflue mi appaiono le tue arrabbiature e le mie paranoie che sono due falde acquifere che si mescolano, due TIR che spargono olio sulla Milano Roma e giù a scivolare le parole che avrei voluto dire e non ho detto e quelle che non avrei dovuto dire ma purtroppo ho detto.
Alla fine mi piacciono questi ingredienti, e anche il Gazometro è quasi familiare adesso. Vedo più lui che mio padre. Te la ricordi quella sera quando ti aspettavi un bacio sulle labbra ma io volevo dartelo solo in fronte perché eri così delicata, così onnicomprensiva che avrei voluto trasmetterti la mia buona salute, i miei polmoni puliti e gli altri organi freschi che ancora possiedo e prendermi in cambio tutta la tua anidride carbonica, l’avrei fatto credimi, l’avrei fatto e lo farei anche adesso ma tu sei al lavoro. Mi sentivo come ad un passo da un traguardo invisibile.
Il fatto è che a volte l’amore è un eterno inseguimento e la mia difficoltà era tutta in quella che io credevo fosse una costante fase preparatoria carica di speranze e ottimismo quando invece ho capito solo ieri che amare vuol dire proprio attendere, attenderti senza riviste di cavalli da sfogliare, guardarti dalla finestra mentre finisci di lavorare anche se ho freddo, attendere nel tempo stesso che tu finisca di lavorare e che io cominci, ritornare a casa e salutare il tuo viso offuscato dai murales sui vetri della metro che finalmente così si valorizzano e non diciamolo all’ATAC che altrimenti alzano il biglietto di dieci centesimi.
Intanto è quasi estate e ti aspetto. Sono le sette e ancora non esci dall’ufficio. Complimenti per le trasmissioni  ho sentito urlare da un balcone, e qui vicino il mese scorso abbiamo visto uno cadere dalle scale e fino a poco tempo fa da queste parti ci viveva Enrico Fermi ed ora ci sono soltanto io, che storie, le cose cambiano e ci ritroviamo sempre insieme a improvvisare. Fai con calma, ti aspetto.

(marco)

stamattina a francoforte

come il rumore del traffico  in sottofondo mentre dormi a Bangkok come le luci della mia città che non distinguo all'orizzonte  è in que...