J.M.G. Le Clézio, Le procès-verbal (1963)
Leggero mal di testa, bruciore
agli occhi, formicolio ai piedi. Le quattro e venti del mattino del 15 agosto
2025.
Siedo al mio posto e, da lì, do
uno sguardo alla mia sinistra. Iran, Iraq, Irlanda, Israele.
Poi alla mia destra. Giamaica,
Giappone, Giordania, Kazakhstan.
Delegati composti, delegati
rumorosi, delegati spaesati. A sinistra come a destra, quattro Paesi più
diversi non potevano esserci. I deputati israeliani non si sono presentati. Qualche
volta, quando il mio posto era occupato da miei connazionali, confesso di
essermi seduto lì, sulla sedia di Tel Aviv, per poter poggiare il portatile. Ogni
volta che accadeva, iI delegato iraniano mi scrutava: devo ammettere che
preferisco essere guardato da altri Paesi.
Come sono finito qui? mi
chiedo mentre chiudo gli occhi per un attimo. Ma sono le quattro e venti del
mattino e quell’attimo si dilata, si spalma lungo la mia coscienza e mi porta altrove.
Mi compaiono davanti diverse
immagini, sensazioni, odori.
Prima di tutto qualcosa,
all’apparenza, intangibile. Il calore. Il calore piatto di un agosto interminabile,
un soffitto invisibile che si abbassa sulle nostre teste. Cammino lungo la
linea di un tram, la malinconia delle recenti sessioni – della Sud Corea fredda
e piovosa e di quel suo mare che sembrava così, in qualche modo, ostile, pronto
a ingoiarci tutti – sembra inquinare in qualche modo anche questa. Sarà davvero
l’ultima? penso mentre mi riparo dal calore sotto una gigantesca sedia
monca, di fronte ad un cancello e ad un viale pomposo. Che sia questa la fine,
tragica e reale, del negoziato plastica? Un gruppo di persone chiede libertà
per Ocalan, un uomo denuncia i talebani afghani: sono urla disperatamente
inutili, impresse nella memoria come una macchia sul fondo oculare.
Come quando guardi il sole per un
attimo e ti rimane la sua impronta, rossa come il sangue, sotto le palpebre.
Ma anche sotto la sedia si
soffoca, e allora cerco di fuggire al calore entrando nel tram, che parte
subito. Puntualissimo. C’è bright horses di Nick Cave in sottofondo
mentre guardo scorrere la vacua, deserta Ginevra d’agosto, con la sua anima
cronometrata e ben scandita.
Se Roma è nata da un
fratricidio, Ginevra da cosa è venuta fuori?
Non si sa, ma io direi da nulla
di così eclatante. All’improvviso si siede al mio fianco il delegato dell’Arabia
Saudita, baffi bianchi sottili-occhialini leggeri. Sotto il gessato grigio indossa
una t-shirt che dice “I’M CONFUSED” e mi sorride ma non vedo denti e dalla sua
bocca si crea un vortice oscuro. Terrorizzato mi alzo di scatto, batto la testa
su una maniglia di ferro ma non mi interessa e corro in fondo al tram, dove c’è
una tenda rossa. La scosto e mi ritrovo dentro il Palazzo. Il Palazzo è un
luogo che sembra avere una vita propria. È gigantesco, studiato per farti
perdere fisicamente e mentalmente: le sale non sono collocate in ordine, c’è un
groviglio di corridoi, uno spreco di spazio senza fine. Le finestre o non ci
sono o sono troppo grandi ed entrano chili di sole. All’esterno ci sono forse
tre panchine in tutta l’area, l’ombra è rara e se, per passare da un edificio
all’altro, decidi di evitare gli intricati passaggi interni, sei condannato a
lunghi viaggi sotto il sole. Ma non è la logistica quello che inquieta. Il punto
è che è un luogo inquietante, ampio e dispersivo. Puoi vedere lobbisti, sauditi,
russi e iraniani arrivare da lontano inesorabili lungo uno degli enormi
corridoi, oppure trovarteli improvvisamente di fronte in una delle strette vie
interne che portano alla caffetteria o alla sala del coordinamento europeo. Siamo
in Svizzera, il che è, sostanzialmente, come non essere da nessuna parte. E questo
Palazzo ti fa sentire proprio così, fuori dal tempo.
Ma torniamo ai miei occhi chiusi.
La testa ancora mi pulsa. Sono nel Palazzo circondato da delegati di tutto il
mondo. È tempo di negoziare. Uomini e donne che fingono di non capirsi e girano
in tondo come elettroni e leptoni del CERN e, ogni tanto, come da programma, si
scontrano. All’improvviso la sessione viene interrotta e capannelli di
particelle di Nazioni diverse si accalcano in un punto della sala (realizzata,
naturalmente, con i fondi del Qatar). Qualcuno prova a scattare una foto
inutile. Il gruppo di delegati si scioglie, in molti annuiscono senza esser
riusciti ad ascoltare una parola e a me, nel frattempo, sembra di vedere un
vestito rosso familiare all’ingresso ma so che non è il suo. Arrivo ugualmente
fin lì, scosto la tenda e mi ritrovo altrove. Sono nell’altra ala del Palazzo,
quella meno decifrabile, quella più retro. Sto percorrendo un immenso,
interminabile corridoio deserto. Soltanto calore opprimente e solitudine. Ora
capisco quando Garcia Lorca scriveva “ero solo come un tunnel”. Opere
d’arte di poco conto alle pareti. Un cavalierino di Trinidad e Tobago finito
sul pavimento. Esiste la polvere, a Ginevra? In sala, osservi questa incomunicabilità
nel comunicare, i ringraziamenti, le formule e le etichette che dicono una cosa
ma hanno l’obiettivo di realizzarne un’altra. Fuori dalla sala, il deserto, gli
oggetti anni Ottanta disseminati un po’ dappertutto: sale con il telefono a
muro, cartelli del passato, elenchi telefonici. Il negozio di souvenir in cui,
quantomeno, ho trovato una cartolina simpatica con un orso disegnato. Questo Palazzo
appare più di un palazzo, confuso come un tunnel, un luogo rassegnato che
trasmette rassegnazione a chi lo percorre (o forse è il contrario? O forse la
sfiducia è un incendio e noi siamo il vento?), un gigante disumano circondato
da un verde sofferente, non abituato a questo calore. Un luogo ibrido in un Paese
ibrido che decide tutto collegialmente, in segreto. Questo corridoio non sembra
finire mai. In fondo vedo una sagoma affacciarsi e poi ritrarsi. Forse era lei?
No. Smettila. Provo ad aprire una finestra ma è bloccata. Sento delle
grida lontane, in spagnolo, che mi riportano al reale.
È qui che riapro gli occhi. Il
delegato cubano sta inveendo contro il Chair. Tra quest’ultimo che recita e noi
che ascoltiamo non riesce proprio a costruirsi la fiducia. La sessione si
chiude bruscamente, con un rinvio alla plenaria fissata per le sei del mattino.
Ho un po’ di tempo per cercare di riprendere conoscenza. Mi trascino fuori con
gli altri reduci: il mio amico Sébastien va a farsi un caffè. Lo saluto, gli
dico che faccio due passi: voglio smaltire le recenti immagini che la mia mente
ha partorito. Scendo le scale vicino al bagno degli uomini. O era quello delle
donne? Non lo so, sono sovrappensiero. Lo siamo sempre tutti quando siamo
dentro questo Palazzo. A cosa pensi, delegato italiano? All’articolo 11? A
un paio di facce che non rivedrai più? Alle fishing gears, scomparse anche loro
dal testo? A quel momento in cui sei stato felice l’anno scorso? Ai colleghi
europei, alla passione per una mission, alla malinconia di questa fine, alla
malinconia che è propria di ogni fine? A tutti questi modi diversi di impegnarsi
insieme, a tutte le lingue diverse? A volte giri uno di questi mille angoli e
trovi qualcuno che piange. Pressione, calore, intensità, questo Palazzo che
trattiene e comprime. Questi danesi ci stanno mettendo tutto quello che hanno,
capisci, ma è anche vero che ci sono sauditi dappertutto, e fa un caldo terribile.
Ti avvicini e gli poggi una mano sulla spalla. Questo luogo è una specie di
Overlook Hotel che materializza paure e debolezze, pensi mentre ritorni un
momento al reale. Dove sono? Quanti piani ho sceso? Sono in un corridoio
sotterraneo. C’è del calcestruzzo, una autoclave spenta. A terra, un adesivo
con una croce bianca su sfondo rosso. Una ricola gialla. Forse è la strada per
la caffetteria? Mi dico di sì, che forse è quella: la percorro perché voglio uscire,
uscire da questo luogo incerto in cui sono finito da così tanto tempo, voglio
fare tutto quello che serve per uscirne ma in fondo al corridoio non c’è
nessuna caffetteria! Perché mi distraggo così tanto? Il delegato ceco mi ha
detto che Kafka è tedesco ma io so che è nato a Praga. Era solo di lingua
tedesca. Non so perché abbia detto questo. Forse mi sbaglio io? Vorrei
essere io ceco per condividere qualcosa con Kafka. In fondo al corridoio ci
sono, da un lato, un mucchio di carrelli di quelli della biblioteca, per
trasportare i tomi. Non vedo mai un topo in questi sotterranei. Che
sotterranei sono se non c’è un topo? A destra ecco una porta a vetri. Forse
riesco a uscire! No. Non è una porta. È un quadro gigantesco che ne raffigura
una. Posso scorgere l’alone della mia sagoma, una versione spixellata di un
delegato europeo che ha perso l’orientamento. Sbuffo e provo a girare l’angolo.
Non vedo finestre ma trovo una porta, c’è un piccolo ufficio di un qualche
dipendente del Palazzo. Immagina cosa dev’essere venire ogni giorno a
lavorare qui dentro, penso con orrore. Ma non riesco a non entrare: non c’è
luce, ma qualcosa filtra dalle crepe dei muri e da non so dove. Quanto è
spoglia questa stanza: una scrivania con un computer, un ventilatore con le
ventole annerite, una mosca morta sul pavimento. Da un lato c’è un lavandino
con un piccolo specchio. Questo doveva essere un bagno di servizio, un tempo,
e ora ci hanno messo un tizio con due Master a leggere dei report e pensare a
cosa fare il sabato sera a Ginevra. Apro il rubinetto. Non esce nulla. Che
ora sarà? Mi passo lo stesso le mani sulla faccia e strofino come per pulirmi
via tutto, il più possibile. Alla fine, di cosa possiamo essere certi? Tutto si
riduce alla nostra percezione. Questa stanza è meno reale delle mie allucinazioni
di prima? Perché? Mi guardo ancora nello specchio opaco. Si può lavorare tre
anni per niente? Forse sì. E, anche se fosse, è valsa lo stesso la pena
provare? Sì, penso di sì. Ricordo un pomeriggio in cui andai con mio padre a
vederlo giocare a tennis. Avevo sette anni. Era il Gargano ma poteva essere la
foresta di Katyn o Fuente Vaqueros o il Ring of Kerry. Non importa dove fosse:
era Europa e, dunque, era casa nostra. Amavo il rumore della pallina sulla
terra battuta. Quel giorno il suo avversario era decisamente più forte di lui. Mio
padre lo fece sudare per bene, ma alla fine perse. Era nell’ordine delle cose,
poteva accadere e lo sapeva: io mi dispiacevo ad ogni punto che perdeva, ma poi
lo vedevo ricominciare ad ogni punto, senza frustrazione. Ogni tanto gli passavo
da bere, e lui mi faceva l’occhiolino e sorrideva. Semplicemente felice di
giocare e di avere suo figlio lì, insieme a lui. Al ritorno guidava velocissimo
con la sua macchina sportiva: meno male che la mamma non c’era! Si sarebbe
arrabbiata di brutto (ma si sarebbe anche divertita segretamente)! Mi ha
guardato e mi ha detto “hai visto che bella partita?” Me lo ha insegnato bene, quel
signore, cosa vuol dire saper perdere. È una delle poche cose importanti da
sapere.
Lo specchio mi ha distratto con
la mia stessa immagine, distogliendomi da quest’ennesimo sovrappensiero. Canali
che si sovrappongono. Vedo i miei contorni a malapena: è sporco, forse unto,
forse qualcuno lo ha bruciato con un accendino. (Si può bruciare uno
specchio?) Esco dal più triste ufficio del mondo e cerco di concentrarmi, dov’è
la strada per la plenaria? Dove mi trovo?
Davanti a me ho un altro
corridoio e, in fondo, una rampa di scale. Arrivo e salgo, e salgo, e salgo, e
sono sempre più stanco ma voglio rivedere le prime luci dell’alba, da quanto
tempo non le vedo, voglio ritrovare una finestra, eppure più salgo più sento
caldo. Ancora questo calore. Questa forza invisibile che ci opprime e poi va
via e poi invece ritorna in altra forma e ci sostiene. Ma rimarrà, da qualche
parte, un segno di questi diversi tipi di calore? Quella malinconia che ci opprime
e quell’umanità di europei che collaborano: resterà qualche segno di
entrambi? Continuo a salire le scale ma trovo porte chiuse e un altro mini-cantiere.
Scendo di qualche piano, mi serve un’altra rampa di scale, inciampo su
un cavo, impreco. Poi sento qualcosa!
È una specie di brusio lontano,
ma c’è, e prima non c’era. Me lo ripeto, mi sto avvicinando a qualcosa e mi
muovi come un cieco, seguo il mio udito e finisco in una piccola sala riunioni.
Dentro c’è un telefono a muro, un elenco telefonico. Non ti stupiresti di
trovare un quotidiano degli anni Ottanta. Ma ti stai avvicinando in qualche
modo, lo sai, ci stiamo avvicinando tutti noi europei a qualcosa, molto
lentamente. Apro una minuscola porta (devo abbassarmi per passarci) e sbuco in
una stanza elegante. Soffitti alti, arredi in legno. I bei tavoli sono pieni di
briciole e rifiuti di un pasto recente. Plastiche monouso, cannucce, bottiglie,
pacchetti di patatine. Deve essere la stanza dei SIDS, inondati dalla
nostra plastica. Il brusio aumenta. Mi torna in mente la stanza europea,
tutte le tracce di quel tipo buono di calore. Cicatrici informatiche, allucinazioni,
connessioni, carte d’imbarco, tornare in hotel a notte fonda insieme, parlando
del più e del meno. Cosa avrà voluto dire il delegato saudita? Perché il brasiliano
è sempre così stronzo? O forse siamo noi gli stronzi? E se lo siamo entrambi?
Non abbiamo altra scelta se non vivere cercando di capire il mistero di chi abbiamo
vicino. Iran, Iraq, Irlanda, Israele. Giamaica, Giappone, Giordania,
Kazakhstan.
Esco da questa sala. Come ci
sono arrivato? Ora sono in un grande corridoio. Più ampio, più luminoso se
non fosse ancora notte. E lì, poi, una figura in lontananza. La sto
immaginando? Una volta una persona mi ha detto che, se avessimo raggiunto un
accordo a Ginevra, avrebbe ballato sulla sedia. Io le ho detto che mi sarei
addentrato nelle fontane. Sembra tanto tempo fa, sembra lontana la sua voce
come sembra lontana Roma, questo incredibile teatro con milioni di comparse che
accoglie tutti. Quella volta in cui hai oltrepassato una piccola chiesa e hai
scoperto che dentro c’era l’impronta dei piedi di Cristo*, poi sei uscito e hai
visto il sole abbassarsi sull’Appia Antica, miliardi di particelle di
pulviscolo a vagare nell’aria controsole (per andare chissà dove? E a quale
scopo?) e tu eri lì a guardare il mausoleo di Cecilia Metella, le grandi
pietre millenarie, il silenzio eterno, incancellabile, che si estende come un
buco nero e ti fa sentire per un attimo presente, vivo, eterno come la città
che rende questo possibile.
La figura in lontananza alza un
braccio. Sorride. È Sébastien? E se fosse il delegato del Kuwait? Ho la vista
sfocata, mi sembra di essere in Sud Corea o forse in Canada, come si
chiamava quella scultura a forma di ragno a Ottawa che poi ho ritrovato identica,
indiscutibilmente lei, in un altro luogo del mondo? Non lo so, ma quello
davanti a me è Sebastien! Forse rimarrà qualcosa a prescindere da questo testo.
Forse dobbiamo solo continuare e magari si troverà un accordo ma, in ogni caso,
mentre lo vedo avvicinarsi mi viene di nuovo da chiedermi, rimarrà qualcosa?
Da qualche parte, di questi ragazzi europei che parlano insieme qualcosa
resterà? Rimarrà qualche traccia anche di questo calore buono?
Forse sì, tra le centinaia di
minute. Tra i report. Tra le intese silenziose. Tra le foto di gruppo e gli
scontrini delle mense. Tra i badge e gli adattatori per le prese elettriche, le
carte d’imbarco e i sandwich freddi. Tra le centinaia di ristoranti italiani a
cui mi associano. Ah, Dio, il cornetto al gusto banana split. (Essere così
intransigente sul cibo fa di me un italiano medio?) Troveremo, da qualche
parte, nelle intersezioni dei discorsi degli altri, delle parti integranti di
noi stessi, un segno di questo calore tutto intorno. Qualcosa che ha toccato
tanti continenti senza cambiare e che, ora che finirà la plenaria e torneremo a
galleggiare tra il reale e l’irreale nelle nostre capitali, con i taxi e i
treni rimborsati, come sempre non so più se sia davvero accaduto.
Sébastien mi guarda incuriosito.
Dove eri finito? La plenaria
sta per iniziare. Ma…
cosa hai fatto alla testa?
*si tratta della chiesa del
Domine Quo Vadis, anche nota come Santa Maria in Palmis.
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