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Friday, August 22, 2025

Saper perdere (sovrappensiero)

 


 L’importante è parlare sempre come se tutto dovesse essere trascritto. Così si può avere la sensazione di come non si è liberi.

J.M.G. Le Clézio, Le procès-verbal (1963)


Leggero mal di testa, bruciore agli occhi, formicolio ai piedi. Le quattro e venti del mattino del 15 agosto 2025.

Siedo al mio posto e, da lì, do uno sguardo alla mia sinistra. Iran, Iraq, Irlanda, Israele.

Poi alla mia destra. Giamaica, Giappone, Giordania, Kazakhstan.

Delegati composti, delegati rumorosi, delegati spaesati. A sinistra come a destra, quattro Paesi più diversi non potevano esserci. I deputati israeliani non si sono presentati. Qualche volta, quando il mio posto era occupato da miei connazionali, confesso di essermi seduto lì, sulla sedia di Tel Aviv, per poter poggiare il portatile. Ogni volta che accadeva, iI delegato iraniano mi scrutava: devo ammettere che preferisco essere guardato da altri Paesi.

Come sono finito qui? mi chiedo mentre chiudo gli occhi per un attimo. Ma sono le quattro e venti del mattino e quell’attimo si dilata, si spalma lungo la mia coscienza e mi porta altrove.  

Mi compaiono davanti diverse immagini, sensazioni, odori.

Prima di tutto qualcosa, all’apparenza, intangibile. Il calore. Il calore piatto di un agosto interminabile, un soffitto invisibile che si abbassa sulle nostre teste. Cammino lungo la linea di un tram, la malinconia delle recenti sessioni – della Sud Corea fredda e piovosa e di quel suo mare che sembrava così, in qualche modo, ostile, pronto a ingoiarci tutti – sembra inquinare in qualche modo anche questa. Sarà davvero l’ultima? penso mentre mi riparo dal calore sotto una gigantesca sedia monca, di fronte ad un cancello e ad un viale pomposo. Che sia questa la fine, tragica e reale, del negoziato plastica? Un gruppo di persone chiede libertà per Ocalan, un uomo denuncia i talebani afghani: sono urla disperatamente inutili, impresse nella memoria come una macchia sul fondo oculare.

Come quando guardi il sole per un attimo e ti rimane la sua impronta, rossa come il sangue, sotto le palpebre.

Ma anche sotto la sedia si soffoca, e allora cerco di fuggire al calore entrando nel tram, che parte subito. Puntualissimo. C’è bright horses di Nick Cave in sottofondo mentre guardo scorrere la vacua, deserta Ginevra d’agosto, con la sua anima cronometrata e ben scandita.

Se Roma è nata da un fratricidio, Ginevra da cosa è venuta fuori?

Non si sa, ma io direi da nulla di così eclatante. All’improvviso si siede al mio fianco il delegato dell’Arabia Saudita, baffi bianchi sottili-occhialini leggeri. Sotto il gessato grigio indossa una t-shirt che dice “I’M CONFUSED” e mi sorride ma non vedo denti e dalla sua bocca si crea un vortice oscuro. Terrorizzato mi alzo di scatto, batto la testa su una maniglia di ferro ma non mi interessa e corro in fondo al tram, dove c’è una tenda rossa. La scosto e mi ritrovo dentro il Palazzo. Il Palazzo è un luogo che sembra avere una vita propria. È gigantesco, studiato per farti perdere fisicamente e mentalmente: le sale non sono collocate in ordine, c’è un groviglio di corridoi, uno spreco di spazio senza fine. Le finestre o non ci sono o sono troppo grandi ed entrano chili di sole. All’esterno ci sono forse tre panchine in tutta l’area, l’ombra è rara e se, per passare da un edificio all’altro, decidi di evitare gli intricati passaggi interni, sei condannato a lunghi viaggi sotto il sole. Ma non è la logistica quello che inquieta. Il punto è che è un luogo inquietante, ampio e dispersivo. Puoi vedere lobbisti, sauditi, russi e iraniani arrivare da lontano inesorabili lungo uno degli enormi corridoi, oppure trovarteli improvvisamente di fronte in una delle strette vie interne che portano alla caffetteria o alla sala del coordinamento europeo. Siamo in Svizzera, il che è, sostanzialmente, come non essere da nessuna parte. E questo Palazzo ti fa sentire proprio così, fuori dal tempo.

Ma torniamo ai miei occhi chiusi. La testa ancora mi pulsa. Sono nel Palazzo circondato da delegati di tutto il mondo. È tempo di negoziare. Uomini e donne che fingono di non capirsi e girano in tondo come elettroni e leptoni del CERN e, ogni tanto, come da programma, si scontrano. All’improvviso la sessione viene interrotta e capannelli di particelle di Nazioni diverse si accalcano in un punto della sala (realizzata, naturalmente, con i fondi del Qatar). Qualcuno prova a scattare una foto inutile. Il gruppo di delegati si scioglie, in molti annuiscono senza esser riusciti ad ascoltare una parola e a me, nel frattempo, sembra di vedere un vestito rosso familiare all’ingresso ma so che non è il suo. Arrivo ugualmente fin lì, scosto la tenda e mi ritrovo altrove. Sono nell’altra ala del Palazzo, quella meno decifrabile, quella più retro. Sto percorrendo un immenso, interminabile corridoio deserto. Soltanto calore opprimente e solitudine. Ora capisco quando Garcia Lorca scriveva “ero solo come un tunnel”. Opere d’arte di poco conto alle pareti. Un cavalierino di Trinidad e Tobago finito sul pavimento. Esiste la polvere, a Ginevra? In sala, osservi questa incomunicabilità nel comunicare, i ringraziamenti, le formule e le etichette che dicono una cosa ma hanno l’obiettivo di realizzarne un’altra. Fuori dalla sala, il deserto, gli oggetti anni Ottanta disseminati un po’ dappertutto: sale con il telefono a muro, cartelli del passato, elenchi telefonici. Il negozio di souvenir in cui, quantomeno, ho trovato una cartolina simpatica con un orso disegnato. Questo Palazzo appare più di un palazzo, confuso come un tunnel, un luogo rassegnato che trasmette rassegnazione a chi lo percorre (o forse è il contrario? O forse la sfiducia è un incendio e noi siamo il vento?), un gigante disumano circondato da un verde sofferente, non abituato a questo calore. Un luogo ibrido in un Paese ibrido che decide tutto collegialmente, in segreto. Questo corridoio non sembra finire mai. In fondo vedo una sagoma affacciarsi e poi ritrarsi. Forse era lei? No. Smettila. Provo ad aprire una finestra ma è bloccata. Sento delle grida lontane, in spagnolo, che mi riportano al reale.

È qui che riapro gli occhi. Il delegato cubano sta inveendo contro il Chair. Tra quest’ultimo che recita e noi che ascoltiamo non riesce proprio a costruirsi la fiducia. La sessione si chiude bruscamente, con un rinvio alla plenaria fissata per le sei del mattino. Ho un po’ di tempo per cercare di riprendere conoscenza. Mi trascino fuori con gli altri reduci: il mio amico Sébastien va a farsi un caffè. Lo saluto, gli dico che faccio due passi: voglio smaltire le recenti immagini che la mia mente ha partorito. Scendo le scale vicino al bagno degli uomini. O era quello delle donne? Non lo so, sono sovrappensiero. Lo siamo sempre tutti quando siamo dentro questo Palazzo. A cosa pensi, delegato italiano? All’articolo 11? A un paio di facce che non rivedrai più? Alle fishing gears, scomparse anche loro dal testo? A quel momento in cui sei stato felice l’anno scorso? Ai colleghi europei, alla passione per una mission, alla malinconia di questa fine, alla malinconia che è propria di ogni fine? A tutti questi modi diversi di impegnarsi insieme, a tutte le lingue diverse? A volte giri uno di questi mille angoli e trovi qualcuno che piange. Pressione, calore, intensità, questo Palazzo che trattiene e comprime. Questi danesi ci stanno mettendo tutto quello che hanno, capisci, ma è anche vero che ci sono sauditi dappertutto, e fa un caldo terribile. Ti avvicini e gli poggi una mano sulla spalla. Questo luogo è una specie di Overlook Hotel che materializza paure e debolezze, pensi mentre ritorni un momento al reale. Dove sono? Quanti piani ho sceso? Sono in un corridoio sotterraneo. C’è del calcestruzzo, una autoclave spenta. A terra, un adesivo con una croce bianca su sfondo rosso. Una ricola gialla. Forse è la strada per la caffetteria? Mi dico di sì, che forse è quella: la percorro perché voglio uscire, uscire da questo luogo incerto in cui sono finito da così tanto tempo, voglio fare tutto quello che serve per uscirne ma in fondo al corridoio non c’è nessuna caffetteria! Perché mi distraggo così tanto? Il delegato ceco mi ha detto che Kafka è tedesco ma io so che è nato a Praga. Era solo di lingua tedesca. Non so perché abbia detto questo. Forse mi sbaglio io? Vorrei essere io ceco per condividere qualcosa con Kafka. In fondo al corridoio ci sono, da un lato, un mucchio di carrelli di quelli della biblioteca, per trasportare i tomi. Non vedo mai un topo in questi sotterranei. Che sotterranei sono se non c’è un topo? A destra ecco una porta a vetri. Forse riesco a uscire! No. Non è una porta. È un quadro gigantesco che ne raffigura una. Posso scorgere l’alone della mia sagoma, una versione spixellata di un delegato europeo che ha perso l’orientamento. Sbuffo e provo a girare l’angolo. Non vedo finestre ma trovo una porta, c’è un piccolo ufficio di un qualche dipendente del Palazzo. Immagina cosa dev’essere venire ogni giorno a lavorare qui dentro, penso con orrore. Ma non riesco a non entrare: non c’è luce, ma qualcosa filtra dalle crepe dei muri e da non so dove. Quanto è spoglia questa stanza: una scrivania con un computer, un ventilatore con le ventole annerite, una mosca morta sul pavimento. Da un lato c’è un lavandino con un piccolo specchio. Questo doveva essere un bagno di servizio, un tempo, e ora ci hanno messo un tizio con due Master a leggere dei report e pensare a cosa fare il sabato sera a Ginevra. Apro il rubinetto. Non esce nulla. Che ora sarà? Mi passo lo stesso le mani sulla faccia e strofino come per pulirmi via tutto, il più possibile. Alla fine, di cosa possiamo essere certi? Tutto si riduce alla nostra percezione. Questa stanza è meno reale delle mie allucinazioni di prima? Perché? Mi guardo ancora nello specchio opaco. Si può lavorare tre anni per niente? Forse sì. E, anche se fosse, è valsa lo stesso la pena provare? Sì, penso di sì. Ricordo un pomeriggio in cui andai con mio padre a vederlo giocare a tennis. Avevo sette anni. Era il Gargano ma poteva essere la foresta di Katyn o Fuente Vaqueros o il Ring of Kerry. Non importa dove fosse: era Europa e, dunque, era casa nostra. Amavo il rumore della pallina sulla terra battuta. Quel giorno il suo avversario era decisamente più forte di lui. Mio padre lo fece sudare per bene, ma alla fine perse. Era nell’ordine delle cose, poteva accadere e lo sapeva: io mi dispiacevo ad ogni punto che perdeva, ma poi lo vedevo ricominciare ad ogni punto, senza frustrazione. Ogni tanto gli passavo da bere, e lui mi faceva l’occhiolino e sorrideva. Semplicemente felice di giocare e di avere suo figlio lì, insieme a lui. Al ritorno guidava velocissimo con la sua macchina sportiva: meno male che la mamma non c’era! Si sarebbe arrabbiata di brutto (ma si sarebbe anche divertita segretamente)! Mi ha guardato e mi ha detto “hai visto che bella partita?” Me lo ha insegnato bene, quel signore, cosa vuol dire saper perdere. È una delle poche cose importanti da sapere.  

Lo specchio mi ha distratto con la mia stessa immagine, distogliendomi da quest’ennesimo sovrappensiero. Canali che si sovrappongono. Vedo i miei contorni a malapena: è sporco, forse unto, forse qualcuno lo ha bruciato con un accendino. (Si può bruciare uno specchio?) Esco dal più triste ufficio del mondo e cerco di concentrarmi, dov’è la strada per la plenaria? Dove mi trovo?

Davanti a me ho un altro corridoio e, in fondo, una rampa di scale. Arrivo e salgo, e salgo, e salgo, e sono sempre più stanco ma voglio rivedere le prime luci dell’alba, da quanto tempo non le vedo, voglio ritrovare una finestra, eppure più salgo più sento caldo. Ancora questo calore. Questa forza invisibile che ci opprime e poi va via e poi invece ritorna in altra forma e ci sostiene. Ma rimarrà, da qualche parte, un segno di questi diversi tipi di calore? Quella malinconia che ci opprime e quell’umanità di europei che collaborano: resterà qualche segno di entrambi? Continuo a salire le scale ma trovo porte chiuse e un altro mini-cantiere. Scendo di qualche piano, mi serve un’altra rampa di scale, inciampo su un cavo, impreco. Poi sento qualcosa!

È una specie di brusio lontano, ma c’è, e prima non c’era. Me lo ripeto, mi sto avvicinando a qualcosa e mi muovi come un cieco, seguo il mio udito e finisco in una piccola sala riunioni. Dentro c’è un telefono a muro, un elenco telefonico. Non ti stupiresti di trovare un quotidiano degli anni Ottanta. Ma ti stai avvicinando in qualche modo, lo sai, ci stiamo avvicinando tutti noi europei a qualcosa, molto lentamente. Apro una minuscola porta (devo abbassarmi per passarci) e sbuco in una stanza elegante. Soffitti alti, arredi in legno. I bei tavoli sono pieni di briciole e rifiuti di un pasto recente. Plastiche monouso, cannucce, bottiglie, pacchetti di patatine. Deve essere la stanza dei SIDS, inondati dalla nostra plastica. Il brusio aumenta. Mi torna in mente la stanza europea, tutte le tracce di quel tipo buono di calore. Cicatrici informatiche, allucinazioni, connessioni, carte d’imbarco, tornare in hotel a notte fonda insieme, parlando del più e del meno. Cosa avrà voluto dire il delegato saudita? Perché il brasiliano è sempre così stronzo? O forse siamo noi gli stronzi? E se lo siamo entrambi? Non abbiamo altra scelta se non vivere cercando di capire il mistero di chi abbiamo vicino. Iran, Iraq, Irlanda, Israele. Giamaica, Giappone, Giordania, Kazakhstan.

Esco da questa sala. Come ci sono arrivato? Ora sono in un grande corridoio. Più ampio, più luminoso se non fosse ancora notte. E lì, poi, una figura in lontananza. La sto immaginando? Una volta una persona mi ha detto che, se avessimo raggiunto un accordo a Ginevra, avrebbe ballato sulla sedia. Io le ho detto che mi sarei addentrato nelle fontane. Sembra tanto tempo fa, sembra lontana la sua voce come sembra lontana Roma, questo incredibile teatro con milioni di comparse che accoglie tutti. Quella volta in cui hai oltrepassato una piccola chiesa e hai scoperto che dentro c’era l’impronta dei piedi di Cristo*, poi sei uscito e hai visto il sole abbassarsi sull’Appia Antica, miliardi di particelle di pulviscolo a vagare nell’aria controsole (per andare chissà dove? E a quale scopo?) e tu eri lì a guardare il mausoleo di Cecilia Metella, le grandi pietre millenarie, il silenzio eterno, incancellabile, che si estende come un buco nero e ti fa sentire per un attimo presente, vivo, eterno come la città che rende questo possibile.

La figura in lontananza alza un braccio. Sorride. È Sébastien? E se fosse il delegato del Kuwait? Ho la vista sfocata, mi sembra di essere in Sud Corea o forse in Canada, come si chiamava quella scultura a forma di ragno a Ottawa che poi ho ritrovato identica, indiscutibilmente lei, in un altro luogo del mondo? Non lo so, ma quello davanti a me è Sebastien! Forse rimarrà qualcosa a prescindere da questo testo. Forse dobbiamo solo continuare e magari si troverà un accordo ma, in ogni caso, mentre lo vedo avvicinarsi mi viene di nuovo da chiedermi, rimarrà qualcosa? Da qualche parte, di questi ragazzi europei che parlano insieme qualcosa resterà? Rimarrà qualche traccia anche di questo calore buono?

Forse sì, tra le centinaia di minute. Tra i report. Tra le intese silenziose. Tra le foto di gruppo e gli scontrini delle mense. Tra i badge e gli adattatori per le prese elettriche, le carte d’imbarco e i sandwich freddi. Tra le centinaia di ristoranti italiani a cui mi associano. Ah, Dio, il cornetto al gusto banana split. (Essere così intransigente sul cibo fa di me un italiano medio?) Troveremo, da qualche parte, nelle intersezioni dei discorsi degli altri, delle parti integranti di noi stessi, un segno di questo calore tutto intorno. Qualcosa che ha toccato tanti continenti senza cambiare e che, ora che finirà la plenaria e torneremo a galleggiare tra il reale e l’irreale nelle nostre capitali, con i taxi e i treni rimborsati, come sempre non so più se sia davvero accaduto.

Sébastien mi guarda incuriosito.

Dove eri finito? La plenaria sta per iniziare. Ma…

cosa hai fatto alla testa?

 

 

 

*si tratta della chiesa del Domine Quo Vadis, anche nota come Santa Maria in Palmis.

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Saper perdere (sovrappensiero)

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