per carlo delle piane (1936-2019)
Era la fine di un'estate, un po' come la fine di un amore quindi, le stesse sensazioni, e nel frattempo mi trovavo in via Aquileia. Lì giaceva un grosso albergo piuttosto ben frequentato, devo dire. Un Mercure. Ci andavano sempre i genitori di Giorgia e mi dicono di averci visto dentro anche Dario Argento, Abatantuono e vari altri mostri. Io personalmente non ci ho mai visto nessuno, tranne una volta Carlo Delle Piane con un braccio ingessato e in canottiera davanti l'ingresso a fumarsi una sigaretta. Uno con una Smart si è fermato e gli ha chiesto come andasse. Lui ha risposto con garbo come in quel film quando chiedeva le patate bollite e la macchina è ripartita. Sembrava pesare sette, otto chili, non di più.
Tornavo a casa e avevo questo Mercure di fronte quando avevo sentito il piede scivolare su qualcosa di lucido, un pannello, qualcosa. Ho abbassato lo sguardo e ho visto una specie di Polaroid grigia. Era un'ecografia. C'era scritto su "Claudio" e mi parve di non capire una cosa banalissima su quello che era accaduto, qualcosa che riguardava qualcuno che doveva aver perso questo importante documento ed era piuttosto imbarazzante per me, era come vedere nelle viscere di un'estranea, spiarla nella più profonda della sua oscurità. Violare quel buio cosmico. Quell'universo intramuscolo che non puoi scacciare con una torcia ma solo con il bisturi o con strani macchinari e liquidi freddi da spalmare sull'epicentro di quei movimenti tellurici sotterranei.
Ho pensato a quando ero io lì dentro, e al fatto che in quel tempo anche tu eri lì rinchiusa come tutti i miei amici o quasi. A quanto poteva risultare semplice ristagnare lì dentro. A quanti miei amici ancora ci vivono da quelle parti, in quella che alla fine può essere anche vista come una galera, nove mesi con la condizionale non ce li leva nessuno e poi qualcuno ci paga la cauzione e ci scioglie in questa lunga penisola di poeti e psicopatici, politici e pescivendoli, tutte cose che cominciano con la P, tutte persone che si somigliano Paurosamente. Avrei voluto andare a ritroso verso di te fino a ritrovare un'ecografia di tua madre e vederti prima di ogni altro. Sarebbe stato bello, sarebbe stato scoprire qualcosa di te che ancora non so.
Forse era il caso di rintracciare la proprietaria di quest'oggetto. Non era un oggetto qualsiasi. Ed era profondamente suo. Avevo deciso di farlo ripercorrendo via Aquileia alla ricerca di qualche fiocco azzurro, ma sarebbe stato troppo facile forse, non mi illudevo di trovarne. Dall'ecografia non riuscivo a capire il mese di gravidanza. Però sembrava bello grosso, Dio mio quanto era grosso, più di Brunetta e di quel nano che fa lo stuntman in america. La data dell'ecografia era il sei settembre e quel giorno era solo otto. C'erano speranze.
Di fiocchi comunque non ce n'erano lungo via Aquileia. Ho chiesto anche a qualche portiere ma niente, uno mi aveva detto di una signora ma aveva partorito la settimana scorsa e comunque era una femmina. Nel frattempo il tramonto era arrivato di schianto. Continuavo a muovere questa polaroid nelle mani. Ha squillato il telefono. Eri tu. Mi chiedevi dove ero ed io te lo dicevo ma tu non mi credevi e riattaccavi. E mentre lo facevi in fondo scorgevo una fila di station wagon oscure con sigle strane che venivano riempite di valige e altri oggetti da un gran numero di servitori vestiti eleganti. Lo facevano con silenzio e in tono dimesso, come se questa cosa proprio la dovevano fare ma era meglio sgombrare il campo il prima possibile. Guardavano il più possibile a terra, come un cane umile che conosco molto bene. All'angolo della strada un furgone era appena stato chiuso. Avevo avvertito chiaramente lo sbattere delle portiere degli addetti al trasloco che lo avviavano e tutta questa gente in pochi secondi aveva riconsegnato la solitudine a questa strada.
La casa era una villa. Con un giardino che era il sogno di ogni cane del canile, pure di Balto, povera stella. Così ben curato, molto meglio dei miei capelli, che a loro volta sfiguravano con quelli della signora che era in piedi su quel prato verde. Abbracciata da quello che immaginavo fosse suo marito, la vedevo prima tenerlo per la cravatta, aggrapparcisi come un'ancora metropolitana, poi crollargli addosso, precipitare come un Punta Perotti umano tra le braccia di quest'uomo altrettanto pericolante.
Avevano lasciato la porta aperta, potevo intravedere il corridoio vuoto, la libreria vuota, le pareti vuote, tutto svuotato di un significato che fino a poco prima doveva ancora esserci, ne ero sicuro perché questa sembrava una fuga improvvisa, una casa devastata da uno tsunami improvviso e invisibile, che aveva cambiato tutto.
Adesso eccoli fuori, sulla strada, aggrapparsi l'un l'altro e tirarsi dietro il cancello stancamente e trascinarsi nella loro berlina scura senza mai parlare. Anche la Mercedes è sembrata cercare di fare il minor rumore possibile e non era una tedesca virtù di fabbrica ma una sincera premura per il proprio padrone triste, lo garantisco. Erano andati via.
Ormai era tardi ed ero rimasto solo io fuori dalla villa e su tutta via Aquileia. Era il caso di tornare a casa, mi stavo dicendo, per scoprire se avevo ancora una fidanzata o c'era solo il cane, che già era qualcosa almeno. Intanto mi fissavo i piedi, e poi i piedi del cancello e quelli della villa intera, e nella tasca di destra avevo ancora l'ecografia ma in quella di sinistra ora c'erano tutte le risposte di cui avevo bisogno racchiuse nel fiocco azzurro che avevo raccolto ai piedi del cancello, e mentre lo cullavo tra le mani pensavo alle origini dei secondi nomi, a quanto fosse probabile che quei due riprovassero ad avere un Marco Claudio o un Paolo Claudio o un Lucio Claudio, perché, qualunque primo nome quel bambino avrebbe avuto, io quella sera ero piuttosto sicuro di quale avrebbero scelto per secondo.
Intanto le luci si accendevano al Mercure. Carlo Delle Piane starà cenando con il braccio buono che aveva a disposizione, e magari su rete quattro davano qualche vecchio suo film e chi lo sa cosa gli sarà passato per la mente mentre guardava una versione ormai passata di sé stesso, con la pelle più liscia e le braccia integre.